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Vuvuzela Stonata #2 – L’informazione che non c’è: The Witcher 2, Dark Souls, Uncharted 3 e… sì, ancora lui, Ninja Gaiden 3

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Vuvuzela Stonata è la rubrica dell’infiltrato Cristiano “Cryu” Bonora, ninjerello del gameplay ma soprattutto serpe in seno che viene a evangelizzarci con le sue sacre verità. E che ha accettato di scrivere su Outcast solo nella speranza di raggranellare qualche clic per il suo podcast.

Sono preoccupato. Dei videogiochi mi confortava un fatto, rispetto a cinema, editoria e musica. La qualità si vedeva. La qualità si vendeva. Certo, poi c’è sempre il singolo titolo incompreso. Ma bene o male Modern Warfare è un super prodotto, FIFA un bel gioco di calcio, GTA un gran pezzo di cultura pop, fatto innegabile anche per me che non lo amo più dal lontano Vice City. Oggi non solo questo regime di merito vacilla, ma i criteri di qualità sono requisiti da un’unica massa acritica che sfuma i confini tra industria, stampa e fandom. Il web c’ha messo del suo. Le notizie viaggiano veloci, le fonti si moltiplicano, l’informazione si annacqua. Un esempio su tutti, l’insorgere di quella figura che è “l’esperto del forum”. Si dà un tono esprimendo giudizi poco più moderati della media, sceglie con cura parole che gli diano gusto a rileggersi mentre si masturba il mento, non perde occasione di smarcarsi dalla vox populi e chiede espressamente di dargliene atto. Salvo non capire nulla di quanto accada sullo schermo della sua vita. E intanto il videogaming sembra ogni giorno più in balia di una folla scapestrata, volubile, manovrabile, sempre affamata di santi e gogne.

Gli ultimi 12 mesi ci offrono diversi spunti. C’è un gioco, il terzo capitolo di una nota trilogia, che si rivela mal distribuito nelle sue parti. La narrazione diventa invadente, l’azione è spezzettata, il cuore del gameplay fallato. Io ho modo di completarlo in leggero anticipo sul pubblico. Mi attendo una reazione scomposta, temo anche ingenerosa, perché alla fine il gioco decolla. Invece, sulla scia dei 10/10, Uncharted 3 piace tantissimo nonostante i primi 11 interminabili capitoli di chiacchiere, macchinosi puzzle e lente passeggiate. Dal canto suo, la zona morta nella mira mette in ginocchio quello che era il gunplay con sistema di copertura più agile in circolazione. Molto in là arriverà una patch, ma nel frattempo il giocattolo è rotto. I più negano, sviluppatori compresi: “La mira è identica ad Uncharted 2”. Finché un utente di Neogaf posta un filmato provante.

Uncharted 3: all’epoca trascorsi le prime ore letteralmente incredulo. Ricordavo uno sparatutto meraviglioso e venivo rimbalzato da una scazzottata a un puzzle, da una camminata a un dialogo, da una fuga scriptata a una cutscene. E quando finalmente si prende a sparare, non c’è verso di mirare dritto. Benedette furono la patch e la seconda metà di gioco.

 

Sei mesi più tardi, un caso speculare. C’è un gioco, il terzo capitolo di una nota trilogia, che si rivela insperatamente buono. IGN, come spesso accade, fa da apripista: Ninja Gaiden 3 prende 3/10. Le accuse? Quelle che nessuna recensione ha avuto il coraggio di muovere ad Uncharted 3. La rete le riecheggia come un mantra. La narrazione sarebbe invadente, l’azione spezzettata, il cuore del gioco fallato (per la confutazione di ciascuna, vi rimando a Vuvuzela Stonata #1).

Eppure nei fan non scatta quel moto di ribellione che insorge ogniqualvolta si tocchi loro il giochino del cuore. No, perché su questo NG grava un imperdonabile peccato originale: non è diretto da Tomonobu Itagaki. Embè? Neanche i Sigma lo erano, e il secondo era una pessima rivisitazione, di una facilità mai denunciata da recensione alcuna. Fa nulla, erano sviluppati con la sua benedizione. Ora gli avidi affaristi hanno sottratto la creatura al creatore e meritano di morire. Di qui, scellerati attacchi oltre ogni ragione e fanatismo religioso. Senza il santo, la gogna. E allora dagli alla grafica (la migliore della serie), dagli alla storia (la meno peggio della serie), dagli al sistema di combattimento (trovatemi una – anche una soltanto – recensione che illustri i due livelli di ferimento dei nemici o come si controlli la Steel on Bone), ma soprattutto dagli al livello di sfida (selezionabile subito fra tre, ma Difficile pare invisibile ai più). Il caso è così clamoroso che meriterebbe una tesi universitaria. Ve la risparmio.

La novità di Demon’s Souls e Dark Souls non sta banalmente nella difficoltà, ma in un design non fatto per essere sconfitto, e invece attrezzato per combattere questa eventualità. Esattamente il contrario di titoli pur impegnativi come Ninja Gaiden, dove a fronte di una grande sfida si dispone di poteri sempre superiori.

 

Parlando di difficoltà, il pensiero corre a Dark Souls, rivelazione dell’anno 2011. Come il predecessore Demon’s Souls, Dark Souls è un gioco difficilissimo dove chi sbaglia paga. L’aura di questo gioco così severo e fuori dal tempo si diffonde nel web. Tanti giocatori comodi, abituati a pascolare i giochi a Normal quando non a impilarli incompleti, ne subiscono il richiamo. Sono anni che non si impegnano davvero su un titolo, ma si sentono pungolati nell’orgoglio. Ci giocano e lo finiscono pure. E sì che con Dark Souls From Software aveva rischiato forte. “Sarà ancora più difficile di Demon’s Souls”. Ma la mossa è azzeccata, perché ammanta il gioco di sacralità e prepara i giocatori (e i recensori) all’unico approccio possibile, la dedizione assoluta. Quanto maldestro invece Team Ninja! Con quella litania sulla maggiore accessibilità, raccolta non dall’acquirente casuale che certo non legge interviste, ma dall’appassionato che poi inizierà NG3 con una sola arma e un mare di pregiudizi.

Dark Souls non ha venduto milioni. Due scarsi. Perché alla fine il genere non è così popolare. Ma straccia Ninja Gaiden 3, prende voti altissimi, premi ed è subito cult. Probabilmente con merito. Una buona notizia, quindi? Nì. Perché ancora una volta, in quel polpettone che non distingue più tra PR, critica e pubblico, mancano il contraddittorio e la misura. Nel bell’episodio monografico di Outcast dedicato a Dead Space, giopep spiegava come certe emozioni siano nemiche della ripetizione. Nello specifico, si riferiva ai QTE di Dead Space 2: chiassosi, travolgenti. Ma sbagliati, perché si muore troppo. E la seconda volta, il sorpresone non funziona più. In Dark Souls la grande paura di morire funziona… finché non muori. A quel punto, la ripetizione di cinque, dieci, venti minuti di giocato è solo un fardello. Perché no, Dark Souls non è difficile ma sempre corretto. Il Demone Capra che ti assale in uno stanzino microscopico affiancato da due mastini zombie mentre la telecamera si impalla ovunque non è corretto. Imboscarti con sei fantasmi che chiudono ogni via di fuga non è corretto. Costringerti a ore di gioco con metà energia perché hai respirato la fiatella di un rospo non è corretto. Né divertente o piacevole in senso lato. Dark Souls è sopravvalutato nella misura in cui, alla sua severa filosofia, non corrisponde una realizzazione di pari rigore. Quando mi chiedono di Dark Souls, rispondo gran gioco, ma da quando l’ho venduto la mia vita è migliorata. La sua forza è essere unico. Se uscissero un Gears of War o un Devil May Cry così punitivi, finirebbero crocifissi. Dark Souls invece è santo subito. E dei peccati dei santi non si parla.

The Witcher 2: Enhanced Edition. Ma siamo sicuri sia veramente “enhanced”? E chi lo dice? Un po’ come Dead Island Game of the Year Edition. Gioco dell’anno 2011 secondo chi? No, perché il mio è Bulletstorm.

 

L’ultimo e più recente caso di disinformazione riguarda The Witcher 2: Assassins of Kings – Enhanced Edition. Bel gioco, per carità. Ma Enhanced non significa migliorato? Qui la faccio breve, ma in Wiskast 17 Teokrazia illustra nel dettaglio come la scherma della versione originale, invero simile a un Batman all’arma bianca, sia ora compromessa, causa le semplificazioni alla fisica del cozzar di spada e un puntamento automatico che impedisce (o comunque complica) il cambiare bersaglio durante la combo. Modifiche cruciali, quindi. Vi sfido a trovarne menzione nel web.

Sì, sono preoccupato. Perché questa industria scricchiola sotto il peso dei suoi vizi. I publisher devono iniziare a trattare la comunicazione come parte integrante dello sviluppo dei giochi, pena clamorosi autogol. Come nel caso di Ninja Gaiden 3, di cui tra l’altro – dopo tutto il polverone sulla presunta facilità – si pubblica una demo con il livello Difficile bloccato. La critica deve sganciarsi dal fandom, pena la sua scomparsa. Ma non si può fare giornalismo senza professionismo. E non si può fare professionismo senza soldi, selezione e formazione. Il videogioco vive un’epoca felice, perché la qualità è tanta, ma sta gettando le basi per un mercato ingiusto e spietato. Il primo passo lo deve fare l’industria, sostenendo e anzi coltivando un’informazione di qualità, parallela e indipendente rispetto alle PR. Non si può aspettare l’editoria, settore in crisi cronica, che punta solo a minimizzare i costi e nel nostro paese è tristemente nota per modelli di business basati sull’insolvenza. I publisher si illudono di fare il loro bene negoziando un 9/10 in anteprima mondiale. Il doping giornalistico paga oggi, ma un pubblico irrazionale e una critica amatoriale sono una spada di Damocle sospesa sull’industria tutta. Perché quello che è successo a Ninja Gaiden 3 può succedere a The Elder Scrolls VI, a Half Life 3 e, perché no, al prossimo Super Mario. Basta che Miyamoto lasci Nintendo.

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